Il disegno di legge in questione, in primis, tratta del rapporto medico–paziente, descritto singolarmente come l’incontro tra due autonomie. Tale rapporto è, invero, asimmetrico: v’è un soggetto portatore di un bisogno e un medico che può provare a rispondere con scienza e coscienza.
In secondo luogo, de facto, introduce la possibilità che un paziente venga lasciato morire, non certo dignitosamente, di fame e di sete, qualificando come “trattamenti sanitari” la nutrizione e l’idratazione artificiale. Questi, fino ad oggi, erano considerati come “sostentamento vitale di base”, in quanto delle “procedure assistenziali non costituiscono atti medici solo per il fatto che sono messe in atto inizialmente e monitorate periodicamente da operatori sanitari” (Comitato Nazionale Bioetica, anno 2005).
Per quanto attiene ai minori d’età o agli incapaci, il consenso al trattamento sanitario è rifiutato dal genitore o dal tutore, “nel pieno rispetto della sua dignità”. Tale concetto non è strettamente giuridico, è piuttosto labile, si presta ad una pluralità di interpretazioni, come testimonia la storia del XX secolo.
Infine, il d.d.l. tratta delle “DAT”: in previsione di una propria futura incapacità, è possibile esprimere il proprio consenso o il rifiuto ai trattamenti sanitari. Tuttavia, si vorrebbe equiparare un consenso/dissenso attuale, informato, specifico, univoco a quello virtuale, futuro, disinformato proprio poiché espresso dinanzi ad un quadro non ancora compiuto di eventi.
Il medico è descritto quale esecutore di ogni volontà del paziente, eppure la professione è definita da scopi specifici, e si può ben discutere che tra questi ci sia anche il dare o facilitare la morte del paziente.